antiche estati in giardino

erano freschi cortili quasi bui con vasi di aspidistra , grandi foglie di mostera, la Regina, sfacciate lingue di sanseveria, spesso striate di giallo, qualche volta tinte di un argento lunare, immobili chamadoree che, senza alcuna regola, in un tempo fragile e improvviso che al bambino che io ero appariva irragionevole, metastorico, fiorivano come una brutta copia malriuscita e sofferente di mimosa. e ricordo l’odore quasi mortuario di acque putrefatte, forte negli angoli meno ventilati, e la sensazione mista di curiosità e tristezza che ne veniva. c’erano, nei giardinetti orgoglio della zia zitella che ognuno di noi ha avuto,  all’ombra dell’unico venerato limone, pallide ortensie celestine e scure aiuole ordinate piantate a convallaria e bordate da clivie oppure dal liriope.  la sorpresa e la gioia delle ore trascorse a cercare le bacche blu fra le foglie dei liriope, per schiacciarle e macchiarsi le dita di un inchiostrino blu tenue, con cui imprimere ditate sul basolato chiaro, o su qualche parete nascosta, timidi segni di una piccola esistenza che cercava espressione. e poi c’erano le altee, genius loci del giardino, misura del mondo per ogni bambino che abbia avuto la fortuna di confrontarcisi. e loro erano sempre più alte, serene e severe, e a me sembrava di non crescere mai, e quel rosa di carta velina, e quel porpora scuro sembravano la promessa delle dolcezze e della sobrietà che immaginavo della vita adulta. ritornavano misteriose ogni estate, sempre più alte, loro.  e ritornavano le sere dense dell’alito del gelsomino napoletano, eterno ricordo delle sere di agosto, e di mio padre che metteva il braccio sulle spalle di mia madre e chiudeva gli occhi sorridendo. e in questo luogo di incanto, inconsapevole specchio di un eden primigenio, arrivava settembre, la prima pioggia e l’immancabile secchio che ,dopo l’acqua, veniva affidato ai bambini perchè si dessero alla caccia delle lumache, che rimanevano schifosamente sputacchianti a “spurgare” per giorni per finire poi in orripilanti salse, condite per i giovani cacciatori dal senso di colpa, e la cui degustazione scavava confini profondi fra il mondo degli adulti e il cuore tenero dei ragazzini.

il ricordo del giardino si snoda lungo una traccia punteggiata di odori e sapori, di disobbedienze e di scoppole sul sedere, di guerre all’ultima arancia e del sorriso sereno di mia madre; e così navigo la breve distanza tra il giardino da cui vengo e il giardino che farò.

  1. adalgisa mastellone |

    mi piace molto

  2. carlotta |

    mi piace passare di qui..passare a leggerti la sera, prima di andare a dormire, mi fa sentire un po’ più a casa 🙂
    comunque il racconto delle lumache lo ricordo..e rabbrividisco al solo pensiero..ma come si fa a mangiare lumache!?! 🙂
    un bacio mammi